Teatro

ZURIGO, Mosè in Egitto

ZURIGO, Mosè in Egitto

Zürich, Opernhaus, “Mosé in Egitto” di Gioachino Rossini MOSE’FRA FONDAMENTALISMO E CRISI ECONOMICA Il “Mosè in Egitto” andò in scena a Napoli nel 1818 con un cast di eccezione che prevedeva i migliori cantanti dell’epoca; Rossini lo rimaneggiò in seguito creandone una versione francese destinata all’Opera di Parigi, intitolata “Moise et Pharaon”, profondamente diversa da quella napoletana che circolò anche in traduzione italiana, soppiantando nella pratica esecutiva l’originale. In epoca recente autorevoli studiosi rossiniani hanno avviato un percorso di rivalutazione della prima versione, ritenuta per certi versi preferibile per concisione e coerenza drammatica. Le danze e gli interventi corali aggiunti per compiacere il gusto parigino compromettono infatti l’equilibrio fra situazione pubblica e privata, meglio bilanciate nell’edizione napoletana,dalla struttura più chiara e meno frammentaria. A breve distanza dal “Moise et Pharaon” presentato l’estate scorsa a Salisburgo con la direzione di Muti, risulta particolarmente interessante vedere il più raro “Mosé in Egitto” proposto dall’Opera di Zurigo in apertura di stagione nel nuovo allestimento firmato da Moshe Leiser e Patrice Caurier. La produzione sottace la componente di “azione tragico- sacra a sfondo biblico” per mettere in scena conflitti di potere dove si oppongono, facendo riferimento alla presente situazione politica mondiale, due sistemi: la società occidentale capitalista di Faraone ed il fanatismo religioso integralista di Mosé. La materia biblica diventa così un racconto moderno sulle paure che ci attanagliano: crisi economica globale, perdita di potere, terrorismo. La scena iniziale ha luogo in una sala di borsa dove sugli schermi si vedono crollare gli indici mondiali fino a spegnersi nelle tenebre del collasso economico sotto gli sguardi impotenti di operatori economici e risparmiatori. Faraone è un uomo d’affari calvo e senza scrupoli, vagamente mafioso, Mosè un terrorista fanatico, in abiti militari e barba lunghissima alla Bin Laden, accompagnato dal fratello Aronne, l’altra faccia dell’integralismo religioso e dogmatico, dagli occhi fissi sul sacro testo, incapace di dialogo o confronto. Frammenti di spazi abitativi, finti come le ambientazioni da showroom della società dei consumi, scivolano sulla scena vuota ricreando squarci del palazzo di Faraone: lo schermo al plasma che propone messaggi video di Mosé/Obama, una cucina turchese dove padre e figlio sono accomunati dallo stesso american breakfast, piuttosto che la camera dove Osiride tiene in ostaggio Elcia, mentre teste di cuoio e terroristi impazzano all’esterno in un mondo in cui tutti sono violenti e dove patti mai rispettati si stipulano in squallidi garage sotterranei, come nei film. Scioccante la scena finale: la parete di fondo si solleva per consentire la fuga agli ebrei, la parete poi ruota e come un’immensa lapide schiaccia gli inseguitori egizi facendoli sprofondare sotto il palcoscenico; solo Faraone si salva per vedere attonito, dopo un intenso scambio di sguardi con Mosè sulla diagonale opposta, un immenso collage fotografico degli orrori di tutte le guerre, sulle note della dolcissima catarsi finale.  La regia eclettica rivela buone intuizioni, ma anche cadute di stile (decisamente brutto il balletto degli impiegati che mimano mosse da discoteca sulle sedie per festeggiare il ritorno della luce) e l’ambientazione contemporanea non esclude inutili tuffi negli anni ’40, con gli ebrei nascosti in un hangar pronti all’esodo e un vecchio aereo sulla pista di atterraggio che ricorda il film Casablanca. Temendo l’effetto noia i due registi riempiono ogni momento di gesti, movimenti, situazioni, e se il pubblico è più stimolato, la musica perde parte del suo respiro e pagine ispirate e sublimi come la preghiera, dove, citando Stendhal “la musica ha un effetto diretto e fisico sui nervi “, sono tradite dal movimento continuo. Un cast affiatato, composto da star internazionali e cantanti dell’ensemble secondo la logica mista perseguita dall’Opera di Zurigo, ha contribuito alla riuscita della produzione. Erwin Schrott conferma il carisma scenico anche travestito da Bin Laden, un Mosè ambiguo quanto Faraone, che getta una luce controversa sul profeta. Nonostante non abbia l’imperiosità vocale da basso autentico, risulta incisivo in tutti i registri e affascina per la voce duttile, capace di chiaroscuri e di variare gli spessori a seconda della situazione drammatica: tonante e terribile nell’invocazione ”Eterno, immenso incomprensibile Dio”, delicato e sensibile nell’attacco della preghiera. Solo per l’ultima recita il ruolo di Faraone è stato sostenuto da Carlo Lepore, che si è distinto per una voce particolarmente salda e sonora, dimostrando un’efficace presa di ruolo con un’interpretazione scenica forte e puntuale. Elcia è l’unica figura “positiva” della produzione ed Eva Mei sottolinea tutto il lirismo e la sensibilità dolorosa della fanciulla ebrea che ama il figlio del Faraone. La voce cristallina dalle eccellenti colorature risulta talvolta un po’ leggera, considerata l’ampiezza della parte. Nel ruolo di Osiride il promettente Javier Camarena sfoggia voce tenorile squillante ed estesa dagli acuti pieni e timbrati, lo stile rossiniano è da perfezionare, ma non dimentichiamo la varietà di repertorio dell’ensemble. Sen Guo è una buona Amaltea, particolarmente apprezzata dal pubblico per il canto d’agilità. Reinaldo Macias dona voce gradevole ad un Aronne, perennemente ondeggiante con il corpo e il capo in segno di preghiera. Completano il cast Anja Schlosser come Amenofi e Peter Sonn nella parte di Mambre. Paolo Carignani dirige con entusiasmo e slancio, proponendo una direzione di buon impatto teatrale in sintonia con una regia spiazzante che non lascia momenti di tregua. La direzione vivace tende però a far correre troppo la partitura senza approfondirne tutta l’ampiezza e articolazione e l’orchestra (dalle sonorità piuttosto forti) è lontana da quell’ideale di levigatezza aulica e neoclassica che ci aveva incantato a Salisburgo. Buona la prova del coro per omogeneità e compattezza nonchè per l’eccellente coordinamento scenico. Particolarmente piacevole vedere un pubblico caloroso e partecipe che dimostra di vivere l’opera e il “proprio” teatro con gioia ed entusiasmo, anche nel Rossini serio. Visto a Zürich, Opernhaus, il 23/10/2009 Ilaria Bellini